Cenni critici
Sono misteriosi e stranianti spaccati di vita quotidiana quelli dipinti da Carlo Paganini: gioiosi, fluidi, aerei, apparentemente spensierati ma venati da un’aria di sottile inquietudine nascosta come i frames di un film francese della Nouvelle Vague, i quadri evanescenti, lievi, delicati di Paganini si inseriscono in un filone di recupero della poesia della vita quotidiana che spesso l’arte maggiore, quella che la fa da padrone nei grandi musei e nelle rassegne internazionali del “contemporaneo” più spinto, ha ormai da tempo smesso di rappresentare, presa com’è nella folle rincorsa di sperimentazioni linguistiche fine a se stesse, provocazioni, giochi di prestigio sempre più astrusi e incomprensibili.
Invece, capita a volte che l’arte ritrovi da sola la strada della semplicità, del racconto gioioso e frammentato della poesia sottile ma potente del nostro vivere quotidiano: ecco allora, come avviene nella pittura di Paganini, spuntare inaspettatamente un episodio, un’immagine, una situazione, abbozzata in pochi e ben calibrati segni: schizzi, linee, dettagli apparentemente insignificanti che saltano all’occhio come strani indizi da tradurre e decifrare. E poi, scenette intime, pacifiche, elementari nella loro ieratica semplicità: una ragazza con le mani in tasca, che sorride di fianco alla sua bicicletta, una vecchia Vespa d’altri tempi, un cappottone giallo, una sciarpa blu, la vetrina di un negozio, il muso di quella Citroën Dyane che ha custodito chissà quanti segreti della nostra gioventù ormai volata via…
Qualche tocco di colore, un’espressione enigmatica d’un volto, un gesto, un’inquietudine che si fa strada sotto lo sguardo di una ragazza o di una donna: così si dipana il racconto misterioso e ricco dell’esistenza stessa messo in scena da Carlo Paganini; un racconto che sembra, in pochi e significativi tratti, rivelare ciò che nasconde il velo di Maya del reale sotto la sua apparente leggerezza, la sua illusionarietà, la sua fittizia inconcludenza. Quello di Paganini è un racconto visivo originale, frammentato, esangue, tenuto in bilico tra realtà e imaginerie, sul confine sottilissimo che separa le nostre memorie personali dai nostri sogni collettivi.
Piacentino, autodidatta, una vita passata nel mondo delle professioni, con un occhio di riguardo e un’attenzione per l’innovazione dello stile, delle mode e del costume, Paganini ha raggiunto col tempo una propria stilistica precisa, un proprio linguaggio, la maturità di una propria grammatica visiva. Il suo linguaggio è apparentemente complesso, in realtà semplice: una mano di acrilico nero fa da fondo, una materia colorata lo copre, e poi la mano dell’artista, come quella dello xilografo, che dà vita alla scena incidendo sulla materia con un bastoncino appuntito, in modo da tirar fuori dalla trasparenza della materia la linea nera e netta dei contorni, e in questo modo costruire e dar vita alle scene, ai volti, ai gesti dei personaggi sulla tela.
Piccolo miracolo, epifania, scoperta della forza travolgente del segno, come il segno del primo uomo vergato sulla sabbia: si gioca qua, nell’immediatezza del gesto e di una visione estratta come per miracolo dalle nebbie della memoria, il mistero e l’originalità del lavoro di Carlo Paganini. Poi, basta una scena rubata col cellulare, l’immagine di un ragazzo o di una ragazza fermi sul ciglio della strada, da cui l’artista prende in prestito le forme e l’espressione, per riannodare il filo tra passato e presente, tra memoria e attualità, tra mistero della forma e gioiosa malinconia del quotidiano.
Vittorio Sgarbi